Superata l’emergenza pandemica, il Governo è da mesi alle prese con i decreti attuativi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che prevedono finanziamenti per circa 15 miliardi di euro destinati al comparto sanità.
Questi ultimi, ricordiamolo, sono finanziamenti in conto capitale, ovvero finalizzati alla realizzazione di investimenti formativi, strutturali e infrastrutturali nella sanità, e non possono essere utilizzati per acquistare beni di consumo o assumere nuovo personale.
Per questo c’è già il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) che, durante il biennio 2020-21, è stato eccezionalmente aumentato di circa 10 miliardi di euro ma che oggi e fino al 2025, complici guerra e crisi energetica, non sembra destinato ad essere ulteriormente rimpolpato.
Anzi, secondo le previsioni del Ministero dell’Economia e delle Finanze, il rapporto della spesa sanitaria con il PIL passerà dal 7% del 2022 al 6,2% del 2025.
La pandemia ci ha lasciato oltretutto un altro grande insegnamento: servirà dotarsi di piani di ricerca scientifica con la flessibilità necessaria per far fronte a eventi non previsti ma prevedibili in futuro.
Anche in questo caso però le evidenze disponibili non sono incoraggianti e anzi dimostrano lo stato di salute “precario” della ricerca nel nostro paese.
Secondo l’Eurostat infatti, al 2019, l’Italia era tra i Paesi che finanziavano meno la ricerca scientifica, dacché investiva solo l’1,4% del Pil, decisamente meno rispetto alla media europea (2,1%) e a quella Ocse (2,5%).
La spesa pubblica nella sanità non può che passare attraverso la ricerca scientifica che, offrendo dati essenziali per la comprensione del mondo sanitario reale, rappresenta il volano per la crescita del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In tal senso, appare necessaria una drastica inversione di tendenza se si vuole preservare il diritto di tutela della salute nonché prevenire future emergenze sanitarie e conseguenti shock economici e sociali.
La pandemia, oltre alla sanità e al nostro rapporto con la salute in generale, avrebbe cambiato anche il lavoro – dinamiche occupazionali e organizzazione – e il nostro modo di lavorare.
Se si guarda alla relazione semestrale dell’INPS, sono oltre un milione le dimissioni dal lavoro registrate dall’Istituto con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021.
Il confronto con l’anno precedente risente però dal blocco dei licenziamenti che era ancora in vigore per fronteggiare la crisi economica determinata dalla pandemia.
Bisogna analizzano i dati in profondità per comprendere che, nel nostro paese, non c’è stata quella che è stata definita come una epocale “fuga dal lavoro”, bensì una più accentuata mobilità “job to job” che caratterizza, dalla fine degli anni Ottanta, le traiettorie e le transizioni di carriera dei lavoratori italiani.
In un contesto in cui le dimissioni si spalmano piuttosto uniformemente su lavoratori a termine o stabili e nel quale il tasso di occupazione è in leggera ripresa (con la disoccupazione che ricomincia a scendere), il risultato è di avere un mercato del lavoro con dinamiche interne più veloci ma non necessariamente un mercato del lavoro più dinamico.
Per quanto concerne invece l’organizzazione del lavoro, la riflessione da fare è la seguente: quello dello smart working da “congiunturale” è diventato fenomeno “strutturale”?
Dal 1° settembre il lavoro agile “emergenziale” è stato superato con la necessità di stipulare gli accordi individuali tra datore di lavoro e lavoratori per proseguire, ai sensi della legge 81/2017, con tale modalità di lavoro (anche se, in questi giorni, si fa largo l’ipotesi che il governo possa ripristinare lo “smart working” in deroga per tutti i dipendenti del settore privato almeno fino alla fine dell’anno).
La recente indagine a cura Randstad Research (2022), che elabora dati Eurostat e Istat, ci offre uno spaccato interessante sullo stato dell’arte nelle aziende italiane.
Dall’indagine emerge che, ad oggi, la diffusione dello smart working nel settore privato coinvolge poco più di un terzo (37,2%) dei potenziali beneficiari (circa 7-8 milioni di lavoratori).
Nel confronto con gli altri paesi europei, l’Italia è fanalino di coda, con una media del 13,6% contro quella UE pari al 20,6% e in grave ritardo rispetto a paesi come la Germania o la Francia, dove la percentuale di diffusione della modalità di lavoro agile è doppia (rispettivamente il 25% e oltre il 30%).
Una battuta d’arresto che segue lo stop allo smart working per i lavoratori del pubblico impiego iniziato un anno fa.
Eppure, in termini di produttività, sostenibilità e benessere dei dipendenti, i nuovi modelli organizzativi “misti”, con alternanza del lavoro tra ufficio e casa, hanno avuto un effetto senz’altro positivo.
Lo testimoniano le conclusioni di diverse indagini e laboratori di ricerca, tra cui citiamo “Smart & Value”, un progetto realizzato grazie alla partnership tra Stantec e Dilium con il ‘Sustainability & Circular Economy Lab’, in collaborazione con l’Università di Bologna e Manageritalia Emilia-Romagna, e presentato lo scorso 15 settembre presso la Bologna Business School, che fotografano uno scenario di perfetta armonia tra le componenti sopraccitate.
Dal campione di dipendenti intervistati, risulta che oltre 300 dipendenti di 11 aziende ha:
- evitato spostamenti per oltre 700 mila chilometri ed emissioni di CO2 pari a quelle assorbite in un anno da una foresta di 32 ettari;
- risparmiato 14.000 ore di spostamento casa-lavoro;
- ha guadagnato in benessere e qualità della vita con un 37% degli intervistati che si è detto meno stressato, il 25% più concentrato e il 7% più creativo.
Dunque, se il paese si è dimostrato resiliente nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, rischia oggi di vanificare gli sforzi fatti in materia di sanità, ricerca e innovazione organizzativa dimostrandosi incapace di trasformare, ancora una volta, la crisi in opportunità.
È il momento di realizzare il cambiamento che il post pandemia impone scacciando il fantasma dell’Italia sonnolenta e gattopardesca.
A cura di Francesco Capria