Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato al nostro paese ben 221,1 miliardi di euro, di cui alla sanità andranno oltre 20 miliardi di euro.
Rispetto a quest’ultima, la quota più rilevante è dedicata agli investimenti in innovazione, ricerca e digitalizzazione del SSN, quindi a colmare l’inadeguatezza della sanità pubblica rispetto all’evoluzione digitale, nonché a sostenere il SSN da anni angosciato da problemi di sostenibilità con le note e inevitabili ricadute per i cittadini in termini di tagli di presidi, posti letto e allungamento delle liste d’attesa.
Ci sono poi 4 miliardi stanziati per l’assistenza territoriale, nodo cruciale per il futuro della sanità.
Il dramma del territorio a inizio pandemia ce lo ricordiamo tutti, con l’impossibilità per i cittadini di avere una diagnosi da Covid-19 e la mancanza di coordinamento tra i medici di medicina generale e gli ospedali.
Le regioni a tal proposito hanno proposto una revisione del modello della medicina di famiglia: l’ipotesi è di convertire la convenzione per far diventare i MMG come dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale e impiegarli in questo modo nelle Case di Comunità insieme a medici specialisti, infermieri e operatori sanitari.
C’è la resistenza del sindacato dei MMG, ma si lavora su una possibile mediazione che consisterebbe in una gestione a rete delle cure sul territorio, con le Case di Comunità nel ruolo di “hub” e i medici che, associati per garantire orari di ambulatorio più lunghi, di questa rete sarebbero i terminali.
Da una parte, lo strumento del PNRR garantisce un’iniezione di liquidità importante al sistema sanitario che, nell’ultimo decennio, ha convissuto con contrazioni significative dei finanziamenti alla spesa da parte dello Stato; dall’altra, però, le risorse del piano, ancorate alla logica della programmazione, devono essere messe a terra adeguatamente.
Prevenzione e cronicità sono le priorità, evidenziate dai lavoratori interpellati in un’indagine realizzata da Assolombarda in collaborazione con il centro di ricerca WWELL dell’Università Cattolica, intorno alle quali è necessario rimodellare l’offerta sanitaria e assistenziale da parte delle regioni a seguito dello shock causato dalla pandemia.
E in tutto questo anche il secondo pilastro di welfare, costituito dagli enti operanti nella sanità integrativa, può giocare un ruolo fondamentale.
La sanità integrativa, grazie al network di strutture sanitarie che permettono l’accesso a oltre 13 milioni di beneficiari, può contribuire certamente al riassorbimento delle liste di attesa, al finanziamento di prestazioni solo parzialmente o non finanziate dal SSN nonché a garantire la continuità delle cure, in particolare per i cronici e i più fragili.