Arrivata la (relativa) quiete dopo la tempesta, è tempo di nuove e importanti sfide per il Servizio Sanitario Nazionale.
A 80 anni dalla celebre pubblicazione del Rapporto Beveridge, che segnò l’avvio di un percorso virtuoso culminato con la nascita del moderno Welfare State e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, nel Regno Unito prima (1948) e negli altri paesi europei poi (in Italia ci si arrivò nel 1978), il fondamento universalistico di quel prezioso modello sembra pericolosamente scricchiolare.
Non che non si voglia continuare a mantenere un sistema che garantisca a tutti i cittadini la possibilità di curarsi ma il dubbio è: ci si sta davvero riuscendo? E, soprattutto, fino a quando il sistema è sostenibile?
La scure del Covid ha letteralmente messo in ginocchio gli ospedali, sebbene ci sia stata una straordinaria prova di resilienza da parte di medici, infermieri e di tutto il personale sanitario e amministrativo.
La sanità italiana è oggi di fronte a un bivio molto importante: rilanciare o smantellare?
Nel provare a dare una risposta a questo interrogativo, avvaliamoci del supporto dei dati.
Negli ultimi tre anni, la spesa sanitaria pubblica è progressivamente aumentata: dai 120 miliardi del 2019 ai 127 del 2020 fino ai 130 del 2022.
Il crollo del PIL, dovuto alla pandemia, ha portato al 7,2 -7,3% l’incidenza della spesa rispetto al PIL, dandoci l’illusione che fosse stato adottato un approccio espansivo della spesa pubblica.
Così non è stato e anzi l’incidenza della spesa è prevista in calo da qui al 2025 per tornare ai livelli pre-pandemici e, precisamente, al 6,1% nel 2025. (NADEF, 2022)
La distanza tra la sanità pubblica italiana e quella tedesca e francese – come dimostrano le evidenze dell’edizione 2022 del Rapporto OASI a cura del Cergas Bocconi – che hanno superato la soglia del 10% del PIL, è pressocché stabile e non accenna a colmarsi.
Per dare la misura del gap tra l’Italia, la Germania e Francia, al netto del già citato incremento della spesa sanitaria pubblica rispetto al PIL nel biennio pandemico, il nostro paese spende poco più di 2.000 euro per cittadino contro i 4.500 e i 3.500 euro di Germania e Francia, rispettivamente al primo e secondo posto in Europa per spesa sanitaria pubblica pro capite.
Ma quello economico non è l’unico costo che i cittadini italiani devono sopportare in questo momento rispetto ai loro omologhi in Europa.
A pesare sulle loro spalle c’è il costo conseguente all’insostenibile leggerezza delle liste d’attesa.
Già prima del Covid, i tempi di attesa per prenotare una visita erano importanti ma, a seguito del lockdown dei servizi sanitari (a tal proposito, rimandiamo a un nostro precedente articolo: https://www.assidim.it/londa-lunga-del-covid-sui-servizi-sanitari/), sono diventati insopportabili con un impatto non trascurabile sulla salute delle persone.
I piani straordinari per il recupero delle liste d’attesa che le Regioni hanno messo a punto di fatto riflettono di fatto le differenze esistenti in termini di esiti e performance: nei primi sei mesi di quest’anno, le Regioni italiane hanno fatto circa 13,7 milioni di accertamenti di questo tipo, vale a dire il 20% in meno rispetto al 2019.
I dati sono di Agenas (Agenzia Sanitaria Nazionale delle Regioni) che ha un monitoraggio molto aggiornato sul lavoro degli enti locali. La Regione più in difficoltà è la Sardegna (-36%), seguita dalla Calabria (-30%) e dalla Sicilia (-29%). La migliore invece è la Toscana, (-10%), seguita da Marche, Puglia, Emilia-Romagna e Lombardia (- 15%).
Se si guarda invece al trend della spesa sanitaria privata (cosiddetta out of pocket), le famiglie hanno ricominciato a spendere per beni dopo il rallentamento registrato allo scoppio della pandemia: invero, come evidenziano i ricercatori del Cergas Bocconi, già nel 2021 tale spesa è ripartita in misura significativa soprattutto nella componente dei servizi, la più colpita dalle restrizioni.
Ciò confermerebbe la tesi per cui l’andamento della spesa sanitaria privata non è solo direttamente imputabile alle carenze dell’offerta pubblica ma è anche legato alle dinamiche del reddito e dei consumi, ragion per cui la spesa privata costituisce una componente fisiologica e ineliminabile del sistema, che necessita di essere compresa al di là del rigido dualismo con quella pubblica e governata.
Le riflessioni e le evidenze contenute nell’articolo non sono certamente esaustive nel fornire un quadro diagnostico sullo stato di salute della sanità italiana.
Alle criticità ormai strutturali si aggiungono gli strascichi pesanti e persistenti della pandemia per cui un’iniezione straordinaria di liquidità è stata utile per tamponare ma certamente non guarire la ferita.
Per garantire insieme la sostenibilità del sistema e il diritto di tutela della salute per tutti i cittadini, accettando la sfida dell’efficienza, dell’appropriatezza e dell’innovazione, servirà de-ideologizzare il dibattito pubblico per superare la dicotomia pubblico – privato e rendere virtuoso l’intervento del “terzo pagante” al fine di rispondere alla complessità delle domande di salute indotte dall’invecchiamento della popolazione e dell’aumento delle cronicità.
Un sistema “misto” di finanziamento nell’erogazione delle prestazioni che afferiscono alla salute e alla protezione delle persone esiste già di fatto in un paese come il nostro.
Un’ibridazione pubblico – privata caratterizza al contempo i consumi sanitari, in quanto la loro composizione varia significativamente a seconda dell’area di beni e servizi coinvolta nella risposta ai bisogni di salute.
Pensiamo, per esempio, alla specialistica ambulatoriale e al pagamento del ticket per una visita in regime SSN: quella spesa confluisce nel circuito dei consumi pubblici finanziati in parte privatamente.
I confini fra pubblico e privato non sono perciò così nitidi nella sanità e, per affrontare le sfide che attendono il SSN in uno scenario di crescente disallineamento tra aspettative, bisogni e risorse, come suggeriscono le opinioni avanzate dagli studiosi del Cergas nell’introduzione del Rapporto OASI 2022, servirà un dibattito aperto tra i policy maker e i manager della sanità per affrontare le grandi criticità irrisolte (i cosiddetti “wicked problem”), basandosi su fatti ed evidenze comprovate e, aggiungo, superando gli steccati ideologici e culturali.
A cura di Francesco Capria